Ara è una donna siriana madre di tre bambini, scappata di casa per rifugiarsi in Libano con la famiglia dopo la nascita del più piccolo.
Il maschietto è venuto al mondo mentre in Siria imperversava la guerra civile, che va avanti nel Paese dal 2010. Negli ultimi quattro anni il 64 per cento degli ospedali pubblici e il 38 per cento dei reparti di pronto soccorso sono stati danneggiati, distrutti o chiusi a causa della loro fatiscenza in seguito agli attacchi alle aree urbane delle grandi città siriane. La produzione di medicinali è crollata del 70 per cento e due terzi dei medici hanno lasciato il Paese. Ad Aleppo, per esempio, sono rimasti solo 36 dottori rispetto ai 5 mila che operavano la professione fino al 2010.
Mentre Ara era incinta, dunque, le condizioni non erano certo quelle ideali per partorire.
Quando racconta la sua esperienza si agita ancora, a due anni di distanza. “Ero quasi allo scadere del tempo e stavo male, ma non c’erano né medici né ospedali. Non era come le altre gravidanze che avevo avuto. Ero sempre andata in ospedale, non avevo mai partorito in casa”, spiega Ara.
“Nel cuore della notte ho detto alla mia famiglia che dovevo andare in ospedale, ma non c’era una strada che potevamo percorrere per arrivarci in condizioni di sicurezza, piovevano proiettili dappertutto. Gli uomini sparavano a qualsiasi cosa riuscissero a individuare nel buio della notte e c’erano così tanti posti di blocco che sarebbe stato impossibile passare”.
“Sono entrata in travaglio alle 4 di mattina. Ero terrorizzata al punto tale che pensavo di morire. Il parto presentava una complicazione terribile e ancora oggi ringrazio Dio per aver avuto al mio fianco anche dei generosi vicini di casa che hanno aiutato un’ostetrica a raggiungermi. Il cordone ombelicale era arrotolato intorno al collo del bambino, ma lei è riuscita a salvare la vita di entrambi”.
Prima dell’inizio dei conflitti il 96 per cento dei parti in Siria era gestito da personale altamente qualificato. Anche se a causa della guerra non è possibile avere accesso a dati precisi, gli esperti dell’Onu sospettano che le morti di madri e neonati durante i parti siano adesso in preoccupante aumento.
Le donne hanno difficoltà ad accedere a tutte le fasi della maternità (prenatale, parto e postnatale), così nella maggioranza dei casi si ritrovano obbligate a mettere al mondo un figlio senza la necessaria assistenza. Mancano le ambulanze, è scarso il personale ospedaliero femminile e, come si può capire dalle parole di Ara, i blocchi stradali possono impedire il raggiungimento delle strutture sanitarie.
Il parto cesareo ha registrato un notevole aumento. Nel 2011 ricadeva su questo la scelta del 19 per cento delle future mamme siriane, ma adesso le cifre sono più che raddoppiate, arrivando al 45 per cento.
Il cesareo comporta, rispetto ai parti naturali, un vero e proprio intervento chirurgico a livello addominale, un maggior rischio di infezioni, di emorragie e di spiacevoli conseguenze legate all’anestesia. Inoltre, prevede tempi di ricovero maggiori e qualora venga attuato prima dell’effettivo scadere del tempo potrebbe creare al feto problemi respiratori o generali carenze di salute.
Tuttavia, ha anche un grande pregio: si può programmare. Il fenomeno di una così ingente e veloce crescita si è avuto perché le donne siriane preferiscono rischiare in sala operatoria piuttosto che fuori, magari durante uno spostamento di notte fino all’ospedale, che come raccontava Ara potrebbe rivelarsi il più sfortunato dei contesti.
Da quando è iniziata la guerra in Siria, si stima che circa 15mila donne che aspiravano a una gravidanza si siano mosse verso la Giordania per concepire. Le troppe falle del sistema sanitario siriano hanno comportato la fuga dalle proprie abitazioni, soprattutto da parte di chi era già da molto tempo in lista per ricevere le dovute attenzioni mediche.
Molte famiglie però sono scappate portando con sé solo quello che riuscivano a radunare in fretta e adesso vivono in condizioni ben peggiori di quelle delle case da cui sono scappati. “Casa” oggi è una tenda, una carovana, un rifugio collettivo o un piccolo appartamento che a volte ospita anche 20 inquilini.
I risparmi o sono già finiti o stanno finendo, quindi a breve molte famiglie non potranno più permettersi di acquistare cibo, vestiti o medicine. Anche una volta scansato il rischio di morte per parto o neonatale, dunque, le cose non migliorano.